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Come potranno i Centri Sportivi sopravvivere alla pandemia?

18 Gennaio 2021
ANIF_IHRSA
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Rick Caro offre spunti di riflessione…

Nel corso dei miei quarantotto anni di esperienza nel settore dei centri benessere, non ho mai assistito ad una sfida epocale come quella determinata dalla pandemia.

Al contempo, sono profondamente colpito dalla capacità di ingegno e dalla perseveranza dimostrate dai leader del settore per superare gli innumerevoli ostacoli, nonostante gli imprevisti rappresentati dalle normative emanate dal governo. Inoltre, la nuova sensibilità verso la sicurezza degli ambienti chiusi ha creato complicazioni notevoli per tutti gli operatori.

 

Liquidità, Liquidità, Liquidità

Quando sono entrato in questo mondo, circa cinquant’anni fa, la tre parole chiave erano: location, location, location.
In sostanza, si consigliava caldamente di individuare le condizioni di mercato ottimali e un sito che risultasse ideale nel lungo termine.
La pandemia ha imposto a tutti gli operatori di fare ricorso al capitale aggiuntivo. Per molti, questo ha significato attirare ulteriori conferimenti di capitale da parte di investitori vecchi o nuovi, ristrutturare i debiti, accedere a fondi governativi (ove possibile), adeguare i contratti di locazione, ridurre drasticamente i costi e stabilire rapporti diversi con i fornitori.

Purtroppo, in molti casi, la pianificazione si era limitata al primo lockdown e copriva solo un periodo di tempo limitato. Non aveva considerato periodi di chiusura prolungati o ripetuti, restrizioni sempre più severe sulle attività (limitazioni nell’uso di determinati spazi chiusi, negli orari, nelle procedure) e la riduzione significativa dei membri disposti a tornare al momento delle riaperture.

Associazioni Statali

La pandemia ha spinto i centri a creare forme di aggregazione, anche in stati che, in precedenza, non avevano mai previsto tale comunione di interessi tra i competitor. Inizialmente, l’obiettivo primario era la riapertura. Immediatamente, si è capito che il settore aveva molte sfide delicate da affrontare. Spesso, non esisteva un contatto diretto con la classe dirigente del proprio Stato o di Regione. I club venivano percepiti in chiave negativa, così come altri spazi chiusi (bar, ristoranti, casinò, teatri, ecc), ovvero come possibili “mega veicoli” del virus. Non è stato considerato il loro ruolo essenziale nella fase preventiva del processo di assistenza sanitaria. Non esisteva alcuna ricerca indipendente che dimostrasse l’assenza di trasmissione di droplet nei centri, nonostante i nuovi protocolli in materia igienico-sanitaria e le migliorie apportate ai sistemi di filtraggio dell’aria. Non si è proceduto a una differenziazione tra autorità sanitarie locali e nazionali. Alcuni richiami a fatti avvenuti in Sud Corea o a dichiarazioni del CDC (Center for Disease Control and Prevention) si sono rivelati nocivi per il settore.

In alcuni stati, i centri, agendo in modo coordinato all’interno dell’associazione, hanno reagito alla frustrazione crescente intentando cause legali contro i governatori. Ma questa strada si è rivelata fallimentare. I procedimenti legali sono, infatti, molto costosi. In tutti i casi, le autorità statali hanno ritardato o differito possibili progressi nei procedimenti. Talvolta, queste azioni hanno generato una reazione negativa da parte delle autorità statali. In sostanza, il governo ha lasciato intendere che non si arriverà a una conclusione fruttuosa dei procedimenti in tempo utile. La situazione, pertanto, è persino peggiorata.

Azioni Alternative Suggerite

Ci sono tre azioni da compiere per fronteggiare la questione della riapertura con successo e in modo durevole.

Prima di tutto, i centri e IHRSA (con il supporto delle associazioni di categoria nazionali di riferimento, vedi ANIF in Italia) dovrebbero collaborare al fine di coinvolgere la comunità medico scientifica.

Un’autorità medica riconosciuta in uno dei 25 principali presidi ospedalieri su scala nazionale influenzerebbe positivamente le autorità sanitarie statali. Un infettivologo della Mayo Clinic possiede una certa autorevolezza al cospetto delle autorità sanitarie statali o, ancor di più, di contea. L’opinione di un esperto terzo e riconosciuto potrebbe avere ricadute più efficace rispetto al parere di un medico locale. Potrebbe rendersi necessario un investimento in denaro teso a retribuire la professionalità degli specialisti. Sarebbe auspicabile contattare medici di alto livello in una serie di specializzazioni (cardiologia, ortopedia, igiene mentale, salute della donna, pneumologia, ecc) che provengano da questi 25 istituti. Sarebbe altresì necessaria un’azione di networking per contattare queste figure professionali nel più breve tempo possibile. Se i dirigenti dei centri riuscissero a sottoporre i nominativi di questi medici a IHRSA (ANIF per l’Italia), tutti i centri sul territorio ne trarrebbero beneficio.

In secondo luogo, il settore manca di un’adeguata ricerca che dimostri come, se i centri seguono alla lettera il protocollo (elaborato dalle autorità governative locali o statali), non esiste pericolo di trasmissione del virus. Essere in possesso degli strumenti atti a dimostrarlo velocemente, in riferimento a un ampio spettro di centri e studi (piccoli, medi e grandi, con diverse tipologie di spazio), andrebbe ad avvalorare la convinzione che, se seguite alla lettera, le regole promulgate per i centri sono sufficienti e adeguate a consentire un uso responsabile degli spazi interni. Al momento, tale ricerca non esiste. IHRSA ha intrapreso diversi studi, che però non sono stati ancora ultimati. Sarebbe auspicabile un coinvolgimento maggiore da parte di molti Stati.

In terzo luogo, in massima parte, le autorità governative sono convinte che esista la possibilità che centri e studi non rispettino le normative. Questi rappresentanti, a livello locale o statale, nutrirebbero dunque un pregiudizio nei confronti della categoria. Tale convincimento deriva presumibilmente dalla presenza, nelle associazioni, di centri che in passato non hanno rispettato le normative locali e statali, creando quindi un “precedente” con l’Ufficio del Procuratore, con le associazioni dei consumatori, con il Better Business Bureau e altri enti pubblici locali. Pertanto, d’ora in poi, i centri dovranno essere proattivi.

IHRSA ha lanciato l’iniziativa Active & Safe Commitment, sul modello di quanto sta già avvenendo nei settori alberghieri, delle compagnie aeree e della ristorazione. È un impegno formale di adesione alle regole, quali il distanziamento sociale, i protocolli di sicurezza, le procedure di sanificazione e i sistemi di tracciamento del contagio. Se ciascun centro aderente a un’associazione statale si impegnasse formalmente con lo strumento dell’Active & Safe Commitment, le autorità vedrebbero il settore in modo diverso e, possibilmente, migliore, rispetto ad altre attività che si svolgono in spazi chiusi.

Qualora questa misura non si rivelasse ancora sufficiente presso i governi, si richiederebbe una convalida esterna da parte di un’azienda terza, utile a far comprendere come i centri si attengono scrupolosamente alle regole e sono in grado di controllare efficacemente il virus.

Ovviamente, affinché queste iniziative siano fruttuose, sarebbe ideale avere un contatto diretto con le autorità. Un dirigente del settore, ad esempio, potrebbe avere proficue relazioni di tale natura, come accaduto di recente in alcuni stati. Questo canale preferenziale sarebbe preferibile.

Se si perseguiranno le tre azioni suggerite, unite all’influenza personale, non ci sarà alcun bisogno di considerare eventuali azioni legali.

L’inadempienza

Recentemente, qualcuno ha avanzato l’idea che i centri potessero restare aperti sfidando la normativa che ne prevede la chiusura. Restare aperti in questo quadro può esporre a serie conseguenze sul piano legale. Se un individuo sostenesse di aver contratto il COVID-19 all’interno del centro potrebbe chiedere che le spese mediche e di ospedalizzazione, nonché i danni derivanti dalla perdita della capacità di guadagno, siano a carico del centro stesso. In quel caso, spetterebbe al centro l’onere della prova per dimostrare che il virus non è stato contratto nei luoghi di sua pertinenza. Nessuna compagnia assicurativa difenderebbe il centro, perché questo ha agito in violazione delle norme vigenti. Se altri individui fossero esposti al contagio in conseguenza di quel caso, il centro potrebbe dover rispondere per tutti. Se, nella peggiore delle ipotesi, quell’individuo morisse, il centro potrebbe essere chiamato a pagare milioni di dollari sulla base delle tavole attuariali. Tutte le spese legali ricadrebbero sul centro. La causa potrebbe protrarsi per due o tre anni. Sui social media ci sarebbe un ritorno d’immagine molto negativo. Questo potrebbe determinare un danno serio per il centro, causandone un crollo nel volume d’affari o persino la chiusura.

In alcuni casi, i proprietari hanno considerato l’ipotesi di sfidare l’obbligo di legge. In questo frangente, i dirigenti si addosserebbero una responsabilità personale e senza alcuna copertura assicurativa. Sussisterebbe, inoltre, il rischio di pesanti ammende. Gli effetti del conseguente danno all’immagine potrebbero perdurare per mesi. Le violazioni della normativa avrebbero pesanti ricadute, sia in termini economici che di reputazione.

L’unica via percorribile è quella della collaborazione: bisogna presentare il miglior volto del settore, rispettare le raccomandazioni e, ovviamente, evitare, attività illecite. Ancora una volta, si ha la possibilità concreta di dimostrare la nostra capacità di resilienza, addivenendo a soluzioni che erano inimmaginabili nel marzo del 2020 e definendo nuovi parametri per gli enti pubblici e i membri dei nostri centri, presenti e futuri.

Rick Caro

Rick Caro è il presidente di Management Vision, Inc., impresa di consulenza leader nel settore dei club privati. Attualmente, è membro di due consigli di amministrazione e di quattro consigli consultivi nel settore dei centri benessere. In passato, È stato presidente della Spectrum Clubs, Inc., azienda leader con ampia possibilità di crescita. Dopo solo sei mesi dall’apertura, è diventata la decima azienda degli Stati Uniti, con due catene in Texas e in California. Ha 47 anni di esperienza nel settore. È stato proprietario di un’organizzazione che riuniva ben otto centri, e di società polisportive nel nord est, vendute con successo nel 1983. Negli ultimi sei anni, ha svolto l’attività di consulenza per oltre 1.700 centri. Caro è stato fondatore, ex presidente e direttore di IHRSA. Ha collaborato a diverse pubblicazioni ed è l’autore del libro Financial Management, rivolto principalmente al settore dei club.

fonte IHRSA
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